
Tre giorni fa si celebravano i trenta anni dalla morte di Charles Bukowski (9 marzo 1994) così sono andato a recuperare il suo romanzo d’esordio: Post Office.
“Mi riportarono a casa e lui se ne andò con lei. Io entrai dalla porta, li salutai, accesi la radio, trovai mezza pinta di scotch, la bevvi, ridendo, mi sentivo bene, rilassato, finalmente, libero, mi scottai le dita con un mozzicone di sigaretta troppo corto, poi mi trascinai fino al letto, arrivai al bordo, inciampai, caddi lungo disteso sul materasso, dormii, dormii, dormii…
La mattina dopo era mattina e io ero ancora vivo.
Forse scriverò un romanzo, pensai.
E lo scrissi.”

Bukowski e la beat generation
Quando lessi Sulla strada (Kerouac) avevo diciott’anni (1971), ero attratto dalla beat generation perché quelli erano i tempi delle marce per il Vietnam (Yankee go home!) e a me che vivevo al di qua dell’oceano e che detestavo l’imperialismo americano quei ragazzi che viaggiavano e facevano una vita da nomadi su e giù per le strade americane, che contestavano la società borghese, sembravano il meglio di quella società. Anche se, a ben vedere, Kerouac scrisse Sulla strada nel 1951, ben prima della guerra in Vietnam, e Sal e Dean, protagonisti del romanzo, vent’anni dopo avrebbero potuto combattere in Vietnam, uccidere i vietcong o venirne uccisi.
Quando a metà degli anni settanta lessi Bukowski (Storie di ordinaria follia) ne ricavai un’impressione di decadenza e di disperazione, ben lontana dall’atmosfera che avevo respirato leggendo Sulla strada. Lo stesso Bukowski non si considerò mai uno della beat generation. La lettura di Post Office, mezzo secolo dopo, conferma in pieno quella prima impressione. E’ bello comunque ricordare le pressioni che Bukowski fece per convincere la sua casa editrice (Black Sparrow) a ristampare i libri del grande John Fante (questa però è un’altra storia, ci tornerò).
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