
Nelle mie scorribande tra gli alti e i bassi del genere poliziesco, tra Paul Auster e Camilla Lackberg, mi sono imbattuto in una sua raffinata sottospecie, la spy story. Il suo inventore, Graham Greene, è uno che se ne intende e che si permette il lusso, dall’alto della sua esperienza nei servizi segreti di sua maestà, di prendere in giro James Bond.
Greene, come scrive Enrico Deaglio in una bella nota introduttiva all’edizione Sellerio (2020) de “Il fattore umano”, pubblicato per la prima volta nel 1978 , è un gentlemen inglese che veste grisaglie talmente classiche da apparire sovversive, membro dei club londinesi più esclusivi, dove lo si trova spesso a pranzo con il fratello Sir Hug, che è stato direttore generale della BBC, e con i membri della Royal Society.”
Eppure Greene sovversivo lo è stato davvero. E’ storia nota che da giovane studente di Oxford fu iscritto al partito comunista e che successivamente fu uno dei “Cambridge Five”, cioè le cinque spie che l’URSS ha addestrato e piazzato ai vertici dei servizi segreti inglesi. D’altra parte Greene era tenuto alla larga dalle autorità USA, era “persona non grata”, l’FBI lo considerava un comunista, e perciò non ammesso in terra statunitense. All’origine di questa ostilità americana non c’era, tuttavia, un’azione di spionaggio bensì un merito letterario: “The Quiet American” (Un americano tranquillo) che nel 1956, anno della sua pubblicazione negli USA (1955 nel Regno Unito), fu aspramente criticato come antiamericano. Ciò che nel romanzo viene messo in luce da Greene è il ruolo svolto dagli americani in Vietnam prima del loro intervento del 1955, conclusosi catastroficamente dopo venti anni di guerra nel 1975.
Ma per la ricostruzione dei precedenti letterari, umani e politici di Greene rimando alla citata nota di Deaglio e alla postfazione di Domenico Scarpa, nella stessa edizione.
Ne “Il fattore umano” Greene organizza una trama semplice, ben orchestrata e con un ritmo incalzante, ricca di personaggi descritti con sapienza psicologica che si muovono tra le rassicuranti pareti domestiche, il via vai dei viaggi in treno per raggiungere l’ufficio, le battute di caccia al fagiano. Colpiscono il cinismo con cui alcuni uomini ai vertici dell’intelligence inglese, sorseggiando un whisky o centellinando un thè, decidono di incolpare di tradimento e di uccidere un agente colpevole soltanto di bere porto di buona qualità, il razzismo ostentato da un agente sudafricano come comportamento naturale e legittimo, l’opportunismo camaleontico e soft che lo stesso agente sostituisce al razzismo precedentemente ostentato, la disinvoltura con cui i servizi inglesi e americani maneggiano soluzioni nucleari tattiche contro le rivolte in Sudafrica, l’amicizia vera che si può stabilire tra agenti di potenze nemiche, perfino con un agente comunista, il tradimento come conseguenza della lealtà nei confronti di un amico, come riconoscenza per un aiuto ricevuto in una situazione molto critica, l’amore tenero e indistruttibile tra un uomo bianco e una donna nera, sua moglie. Una storia molto umana e, forse per questo, tragica.
“Sarah domandò: ‘Hai amici?’
‘Oh, sì, non sono solo, non ti preoccupare, Sarah. C’è un inglese che lavorava per il British Council. Mi ha invitato nella sua dacia in campagna, quando verrà la primavera. Quando verrà la primavera’ ripeté, con una voce che non sembrava la sua, la voce di un vecchio, che non può essere sicuro di vedere un’altra primavera.
‘Maurice, Maurice, ti prego, non perdere la speranza’ disse Sarah, ma dal lungo assoluto silenzio che seguì, comprese che la comunicazione con Mosca era stata interrotta.”

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