Anche la lingua è un coltello.

Da aprile 2024 è disponibile nelle librerie la traduzione italiana dell’ultima opera di Salman Rushdie, “Coltello”, il cui sottotitolo, Meditazioni dopo un tentato assassinio, indica il genere a cui appartiene, a metà tra l’autobiografia e il saggio.
L’autore, infatti, nella prima parte descrive nei minimi dettagli la tragica esperienza del suo accoltellamento, avvenuto il 12 agosto del 2022 a Chautauqua, nello stato di New York, durante un evento pubblico organizzato dalla Chautauqua Institution, ma anche la solidarietà e l’affetto con cui amici e familiari lo hanno subito circondato, infine la sua difficile convalescenza, la riabilitazione, del fisico, della mente e dello spirito.
Nella seconda parte, Rushdie racconta il suo lento ritorno alla cosiddetta normalità, la vicinanza di Eliza, sua moglie, l’incontro con i suoi amici, con Martin Amis che lotta contro un cancro all’esofago andato in remissione e poi tornato (“Quella è stata l’ultima volta in cui ho visto Robert. Poi, il cancro ha preso il sopravvento su di lui, e se l’è portato via.”), la notizia che il suo fratello in lettere, Anif Kureishi, è svenuto mentre si trovava a Roma e quando è rinvenuto non riusciva più a muovere braccia e gambe, la notizia che l’altro suo amico, Paul Auster, ha un cancro ai polmoni ma spera che le terapie possano ridurne l’area tanto da consentire ad un intervento chirurgico di rimuoverlo del tutto (sappiamo che purtroppo è stata una speranza vana). Insomma, una realtà dove si aggira avido e furtivo l’angelo della morte.

“…avevo l’impressione che la Morte stesse visitando solo gli indirizzi sbagliati.
Stavamo tutti invecchiando. ‘E la situazione non migliorerà di certo’ ho pensato. Angela Carter, Bruce Chatwin, Raymond Carver, Cristopher Hitchens si erano tutti congedati troppo presto. E ora un’intera generazione si avvicinava all’uscita di scena.
Martin è morto nel sonno, serenamente, senza soffrire, la notte del 19 maggio 2023.”

Tuttavia, nella storia raccontata da Rushdie, dopo l’angelo della morte arriva l’angelo della vita, che offre all’autore una seconda opportunità, una nuova vita. Festeggia San Valentino a cena fuori con Eliza. A febbraio 2023 esce il suo nuovo romanzo, “La città della vittoria”, che ha un’ottima accoglienza, perfino in India. Infine, decide di scrivere un libro sulla sua tragica esperienza, “… dopo sei mesi di vuoto, l’energia creativa aveva ripreso a fluire”. Mai e poi mai avrebbe voluto scrivere la storia del suo tentato assassinio, ma… “Ho cercato in ogni modo di evitare il cliché dell’elefante nella stanza, ma la verità inaggirabile era che in mezzo al mio studio c’era questo enorme mastodonte del cazzo, che agitava la proboscide e barriva e puzzava non poco.” Rushdie si appropria di ciò che gli è accaduto e lo trasforma in lavoro, “l’unica cosa che sono in grado di fare”.

“Quanto più tornavo ad addentrarmi nella vita ‘ordinaria’ e ‘reale’, tanto meno avevo piacere a insistere su quella vicenda ‘straordinaria’ e ‘irreale’. La cosa di cui mi importava era passare oltre, scrivere un nuovo capitolo del libro della mia vita.”

E’ stato quasi ucciso con un coltello, quasi trent’anni dopo la fatwa di Komeini, ma si è ripreso la vita con un altro coltello:

“Anche la lingua è un coltello. Può squarciare il mondo e rivelarne il significato, i meccanismi nascosti, i segreti, le verità. Può aprire un varco da una realtà a un’altra. Può smascherare le fandonie, aprire gli occhi alle persone, creare bellezza. La lingua è il mio coltello.”

Lo scaffale Rushdie

Ogni tanto accade che la lettura di un romanzo susciti in noi sensazioni forti come il piacere dato dalla scorrevolezza e dalla musicalità del testo, dal fascino della storia, dalla ricchezza dei personaggi, dai pensieri e dalle associazioni che stimola. Al piacere della lettura si aggiunge poi l’ammirazione nei confronti dell’autore per la qualità della sua scrittura. E’ quello che è accaduto a me con “I figli della mezzanotte”, tra i romanzi di Rushdie il mio preferito. E pensare che lo avevo acquistato, se ricordo bene nel 1987, per regalarlo alla madre della mia prima moglie. Fortunatamente per me fu un regalo boomerang, di quelli che tornano indietro perché non molto graditi, o comunque sbagliati. Faticai molto all’inizio, non riuscivo a “ingranare la marcia”, interrompevo e ricominciavo. Poi, ad un certo punto, il testo mi ha preso per mano e mi ha condotto fino alla fine della storia.
Non so a quante persone ne ho consigliato la lettura e a quante l’ho prestato, so che l’ultima volta questo amato libro non è tornato indietro, non ricordo chi si è dimenticato di restituirmelo. La copia che ho nello scaffale l’ho acquistata una decina di anni fa perché volevo comunque averne una sul mio scaffale e per avere la possibilità di riaprire le sue pagine e leggerle se ne avessi avuto voglia.
Dal 1987 ho seguito la produzione letteraria di Rushdie, sia dei romanzi sia dei testi di altro genere. Per esempio, nei miei studi sulle rappresentazioni dell’infanzia nella storia del cinema ho incontrato il bellissimo saggio che Rushdie, nel 1992, dedica al film “Il mago di Oz” (Fleming, 1939), dove afferma che quello de “Il Mago di Oz” è uno dei rari casi in cui il film è di gran lunga migliore del romanzo da cui è tratto, verissimo.
I suoi testi occupano un intero scaffale della mia biblioteca (con “Coltello” ho finito lo spazio disponibile sullo scaffale, dovrò iniziarne un altro).

Dal 1975 al 2020, prima come maestro elementare poi come professore universitario, ho praticato, studiato e insegnato la pedagogia, la docimologia, le tecnologie didattiche. Da pensionato leggo, scrivo, cammino, viaggio e sto lontano dai cantieri.

Luciano Cecconi

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