I viaggi e la memoria

Sono appena tornato da un viaggio in Bretagna, con un piccolo sconfinamento in Normandia, e un po’ per scelta un po’ per caso mi sono ritrovato immerso in ricordi di oltre cinquant’anni fa.

Nel 1971 avevo fatto un viaggio molto simile, il mio primo viaggio da solo. In realtà quell’estate io e un mio compagno di classe decidemmo di passare il mese di agosto a Parigi. Trovammo ospitalità in un collegio a rue de Sèvres, gestito dai cosiddetti frères, i Fratelli delle scuole cristiane. Molti anni prima avevo frequentato le elementari, fino alla quarta, presso la scuola annessa alla loro casa generalizia di Via Aurelia, a Roma. Il ricordo di questa appartenenza e l’intervento di mio padre, ex alunno e ex frère, servirono a procurarci l’ospitalità a Parigi.

Il fatto è che ad un certo punto del nostro soggiorno parigino io e il mio compagno decidemmo di dividerci. Lui voleva visitare la cattedrale di Chartres, io volevo visitare la Bretagna. Quindi ci dividemmo e partimmo, ciascuno per la sua strada.

Dopo cinquantatré anni ho deciso di tornare in Bretagna, questa volta non da solo ma con la mia compagna e nostra figlia.

Quando ho scelto su MLOL le mie letture per il viaggio volevo prendere in prestito due romanzi di De Giovanni perché recentemente ho scoperto il commissario Ricciardi e ho iniziato a seguirne le indagini. Purtroppo, ma non per lui, De Giovanni piace a molti perciò su MLOL occorre prenotare i suoi libri e a volte i tempi di attesa sono lunghi. Quindi prima di partire per la Bretagna ho dovuto scegliere in fretta un altro autore. Qui entra in gioco il caso. Mentre scorrevo il catalogo mi sono imbattuto in Simenon, che ho sempre considerato uno dei grandi del Novecento. Nell’ultimo anno di lui ho letto due romanzi: “Maigret va al sud” e “Maigret e le donne fatali”. Così, per andare su un autore sicuro e per approfondire la conoscenza del commissario con la pipa ho scelto “Maigret a scuola” e “Il cane giallo”.

L’inchiesta narrata nel primo, che ho iniziato a leggere in aereo, mi ha coinvolto per due ragioni. 1) Si svolge in un piccolo paese, Saint-André, che si trova “A una quindicina di chilometri a nord-ovest di La Rochelle, non lontano dalla punta di Auguillon”, pochi chilometri a sud di Nantes, l’aeroporto dove siamo atterrati provenendo da Milano Malpensa. Forse avrei potuto vedere questo paesino dall’alto, guardando dal finestrino. Pura coincidenza. 2) La seconda ragione è decisamente più coinvolgente. Il personaggio più importante, a parte Maigret, è un maestro elementare che tra i suoi allievi ha anche suo figlio.

Del secondo, che ho letto subito dopo il mio ritorno, mi hanno colpito il titolo e l’ambientazione. Il titolo perché mi ha riportato d’un colpo a quel soggiorno parigino, nel collegio di rue de Sèvres, in particolare ad una conversazione col mio compagno di viaggio; l’ambientazione perché nel periodo in cui si svolge l’inchiesta Maigret è stato distaccato a Rennes, dove in quest’ultimo viaggio bretone abbiamo soggiornato, e da lì si reca a risolvere un caso a Concarneau, sempre in Bretagna, trenta chilometri a sud di Quimper, che nel 1971 trovai bellissima. 

Tanti ganci che legano le mie letture alle esperienze di viaggio, di ieri e di oggi. Senza averlo voluto. Una coincidenza stimolante.

Con “Maigret a scuola” tornano a galla i ricordi d’infanzia, infatti la storia del maestro che ha il figlio tra gli allievi della sua classe è anche la storia mia e di mio padre. Tra la quarta e la quinta elementare cambiammo casa e dovetti lasciare la scuola dei frères, così mio padre mi iscrisse nella scuola più vicina alla nostra nuova casa, quella dove insegnava lui e poiché quell’anno insegnava in quinta finii proprio nella sua classe. Come il maestro di Maigret anche mio padre, per evitare accuse di favoritismi nei miei confronti, abbassava sistematicamente i miei voti e, se c’era da rimproverare qualcuno, sceglieva me. Insomma, per evitare il favoritismo praticava il suo ribaltamento: lo sfavoritismo. Eppure questo, purtroppo, non bastava. C’era un mio compagno, un po’ pasticcione, che tutte le volte che ne combinava una o che falliva in qualche compito, indipendentemente da quello che io facevo o non facevo, iniziava a piangere. Dalla tasca del grembiule estraeva un grande fazzoletto bianco tutto stropicciato, si asciugava le lacrime e rivolgendosi a me gridava “però a lui no perché è il figlio del maestro!” Dopo sessant’anni ricordo ancora il suo nome e il suo viso bagnato dalle lacrime. Ma quello che ancora pesa nei miei ricordi è la scarsità, anzi l’assenza di lodi nei miei confronti da parte di mio padre, in classe e fuori. Soltanto quando, più di trent’anni dopo, presi un dottorato di ricerca in pedagogia, mi elargì un “bravo” che conservo in memoria come una medaglia. Quella fu un’esperienza dura sia per me sia, immagino, per mio padre. Mi piace pensare che fu determinante nella scelta che subito dopo mio padre fece di lasciare l’insegnamento. Partecipò al concorso per diventare direttore didattico e lo vinse. Avere il padre come maestro non è stato facile, sono convinto che anche per lui l’esperienza non fu positiva. Non voglio giudicarlo, io comunque fossi stato in lui non avrei accolto mio figlio nella mia stessa classe.

A proposito di medaglie, ricordo che dai frères sia le lodi che le punizioni erano esemplari e ritualizzate. 

Le lodi arrivavano alla fine del trimestre e alla fine dell’anno. Alla fine di ogni trimestre si portava a casa un cartellino, una sorta di semaforo valutativo: di colore verde se eri stato bravo, giallo se avevi avuto qualche difficoltà, rosso se ti stavi avviando verso la bocciatura. Alla fine dell’anno c’era la premiazione, una cerimonia che si svolgeva nel cinema più vicino alla scuola che, per ironia della sorte, alcuni anni dopo divenne un cinema a luci rosse. Davanti a tutte le famiglie vestite a festa gli alunni salivano sul piccolo palcoscenico posto sotto lo schermo e venivano premiati con una medaglia. Il merito veniva riconosciuto con tre metalli diversi: oro, argento e bronzo. Conservo le mie medaglie in un piccolo scrigno di peltro accanto ad una foto scattata da mio padre il mio primo giorno di scuola, grembiule nero, colletto rigido bianco e fiocco bianco. Accanto a me mio fratello che mi tiene per mano. Il primo giorno di scuola per lui sarebbe arrivato quattro anni più tardi.

Anche per le punizioni i frères non scherzavano. Ricordo una scala a tre intervalli: mancanze lievi, gravi e molto gravi. Ho fatto esperienza di tutte e tre le punizioni. Quella che ricordo di più, naturalmente, è quella che corrisponde alla mancanza molto grave. La ricordo perché per me è stata un’esperienza davvero umiliante. 

Per le mancanze lievi ci si metteva in riga, davanti alla cattedra, rivolti verso i compagni di classe e si mostrava il palmo della mano destra rivolto verso l’alto. Il maestro passava con la bacchetta e assestava un solo colpo sul palmo aperto.

Per le mancanze gravi lo schieramento davanti alla classe e lo strumento erano gli stessi, solo che il palmo della mano doveva essere rivolto verso il basso, in modo tale che la bacchetta colpisse il dorso. 

Per le mancanze molto gravi lo schieramento davanti alla cattedra era lo stesso, cambiava invece lo strumento della punizione e la parte del corpo che doveva essere colpita. Il maestro usava la sua mano, a palmo aperto, per schiaffeggiare sulla guancia il malcapitato che si era macchiato di una colpa molto grave. Ricordo ancora le guance arrossate dallo schiaffo, rossore che a volte rimaneva vivo fino a casa, dove se dicevi la verità su come te lo eri procurato ricevevi un secondo schiaffone. Ricordo lo schiaffo che ricevetti e la vergogna che provai ma non la mancanza “molto grave” che commisi.

Ne “Il cane giallo” a far scattare i ricordi è stato il titolo.
Nella stanza in cui dormivamo in rue de Sèvres, il mio compagno di classe ed io iniziammo una di quelle conversazioni sul senso della vita che solo a quell’età si ha il coraggio di affrontare. Sì, perché oggi io avrei qualche problema e non pochi timori a intraprendere una conversazione a partire dal quesito “qual è il tuo atteggiamento davanti al tuo futuro, lo costruisci programmandolo o ti lasci modellare dal caso e dagli eventi?”. Oggi avrei problemi a rispondere a questa domanda soprattutto perché il mio futuro si è terribilmente accorciato e poi perché quel tipo di interrogativo sollecita risposte alquanto manichee, ma a quei tempi e a quell’età si è (eravamo) massimalisti. Fatto sta che nella discussione che si protrasse fino a notte arrivammo a dichiarare propositi opposti, da una parte chi sosteneva che il passare del tempo e le circostanze determinavano più o meno casualmente il futuro di ciascuno (io) e dall’altra chi invece sosteneva che il futuro di ciascuno era il risultato di obiettivi, di scelte e di comportamenti conseguenti (il mio compagno di classe). Ricordo che come esempio dei risultati prodotti dal tempo che passa e dalle circostanze io citai i fiumi il cui percorso assume una forma spesso cangiante nel tempo proprio in conseguenza di eventi naturali come l’alternarsi delle stragioni, i nubifragi, i terremoti, e eventi meno naturali come le cementificazioni ecc. Ricordo anche che chiesi al mio compagno qual era il suo obiettivo, cosa avrebbe fatto da grande. Mi rispose che voleva fare lo scrittore, voleva scrivere un romanzo. Gli chiesi anche come lo avrebbe intitolato. “Il cane giallo”, mi rispose.
Da allora per me la figura del cane giallo rappresenta il desiderio di diventare uno scrittore. 

Mi sono ricordato del “cane giallo” nel 2001, durante la presentazione del primo romanzo di un mio amico. Lo citai come esempio di una forte vocazione alla narrazione che nel caso del mio amico al suo esordio letterario si era realizzata. 

Confesso che solo scegliendo le letture per il mio viaggio in Bretagna ho scoperto che “Il cane giallo” è il titolo di un romanzo di Simenon. Non so se all’epoca il mio compagno di classe lo avesse letto o ne fosse a conoscenza. So che è diventato un brillante economista e non mi risulta che abbia scritto romanzi. Quanto a me nel corso del tempo ho cambiato percorso più volte, a seconda delle circostanze e degli eventi. I cambiamenti sono iniziati all’università: anch’io avevo iniziato a studiare da economista ma le circostanze mi hanno spinto a cambiare facoltà e mi sono laureato in sociologia. Alla fine, ancora le circostanze e gli eventi mi hanno spinto a prendere un dottorato in pedagogia. Economia, sociologia e pedagogia, le anse principali del mio fiume culturale. Anche in campo lavorativo ho cambiato più volte, ma rimanendo sempre nel mondo dell’educazione. Ma i cambiamenti più significativi, e in alcuni casi più dolorosi, li ho vissuti in campo affettivo. Alcune testimoni di questi cambiamenti sono ancora tra noi altre purtroppo non più.

Insomma, come un fiume anch’io ho tracciato anse, depositato detriti, scavato rocce, ho accelerato e poi rallentato la mia corsa, ho incontrato ostacoli e superato dislivelli, a volte con cascate fragorose. Ho anche contribuito a dar vita ad un emissario, una splendida figlia. Ma come accade con i fiumi ora scorro placido e lento verso il mare. 

Dal 1975 al 2020, prima come maestro elementare poi come professore universitario, ho praticato, studiato e insegnato la pedagogia, la docimologia, le tecnologie didattiche. Da pensionato leggo, scrivo, cammino, viaggio e sto lontano dai cantieri.

Luciano Cecconi

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