
A proposito di autori che donano al lettore il piacere del testo ma anche quello della narrazione e, al tempo stesso, spingono a riflettere sul senso della storia narrata, sui personaggi che la popolano, ecco a voi Paul Auster. Ho appena finito di leggere/rileggere “Città di vetro”, il primo dei tre romanzi che compongono la Trilogia di New York.
I due brani che seguono si trovano all’inizio e alla fine del romanzo, rispettivamente alle pagine 6 e 129 dell’edizione Einaudi (1996).
“New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. (…) Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più.”
“Camminò fino alla Centosettesima strada. Aveva ancora in tasca le chiavi di casa, e mentre apriva la porta d’ingresso e saliva le tre rampe di scale fino al suo appartamento, era quasi felice. Ma appena vi mise piede il suo conforto svanì.
Tutto era cambiato. Sembrava veramente un altro luogo, e a Quinn venne il dubbio di avere sbagliato appartamento. Tornò sul pianerottolo e controllò il numero della porta. No, non si era sbagliato. Era il suo appartamento: la chiave che aveva aperto la porta era la sua. Tornò dentro e riepilogò la situazione. La disposizione dei mobili era cambiata. Dove un tempo c’era un tavolo ora c’era una sedia. Dove un tempo c’era un divano adesso c’era un tavolo. C’erano nuovi quadri alle pareti, un nuovo tappeto sul pavimento. E la sua scrivania? La cercò inutilmente. Esaminò con più attenzione i mobili e vide che non erano i suoi. Quelli che c’erano l’ultima volta che era stato nell’appartamento li avevano portati via. La scrivania era sparita, spariti i libri, spariti i disegni di suo figlio morto. Passò dal soggiorno nella stanza da letto. Il letto non c’era più, il cassettone non c’era più.”
Nei due brani possiamo vedere l’inizio e la fine della storia, che ci si può perdere in una città, e dentro di sé, e quali possono essere le conseguenze di questo perdersi in un non luogo. Il secondo brano è terrificante. Ho provato ad identificarmi con Quinn e ho avuto paura, ho provato una sensazione di lancinante smarrimento, di vertigine, come sull’orlo di un precipizio. Provate anche voi. Dopo esservi persi, in tutti i sensi possibili, finalmente tornate doloranti a casa, la vostra casa, la tana in cui ogni cosa, un divano, una scrivania, un quadro, uno scaffale, una fotografia, riflette voi stessi e la vostra storia, un luogo costruito da voi che vi avvolge e vi rassicura, poi aprite la porta e nulla di tutto ciò è ancora lì, tutto è sparito. Quel luogo non siete più voi, voi siete in un luogo che non vi appartiene più. Siete una tartaruga senza carapace, una chiocciola senza guscio, uno scarabeo senza esoscheletro. Vi ritrovate all’improvviso senza la dimora che vi ha protetto da tutto ciò che dall’esterno vi ha minacciato: il freddo, la pioggia, il vento, gli scocciatori, gli amici invadenti, gli inviti sgraditi, i predatori di ogni genere. Cosa provate? Ancora due brani, dalle pagine 42 e 43 e dalla pagina 138 della stessa edizione Einaudi.
“Era utile disporre di un luogo specifico dove annotare i pensieri, le osservazioni e le domande. In questo modo forse avrebbe mantenuto il controllo sugli eventi.
Esaminò la catasta tentando di scegliere. Per motivi che non riuscì mai a chiarire, sentì improvvisamente un’attrazione irrestistibile per un particolare taccuino rosso in fondo al mucchio. Lo tirò fuori e lo esaminò, facendo scorrere cautamente le pagine con il pollice. Non capiva perché lo trovasse così affascinante. Era un comune bloc-notes di cento pagine, ventuno-per-venticinque. Ma qualcosa in quel taccuino sembrava fare appello a lui, quasi che il suo unico destino nel mondo fosse quello di contenere le parole uscite dalla penna di Quinn. Quasi imbarazzato per l’intensità delle proprie sensazioni, Quinn mise il taccuino sottobraccio, andò alla cassa e l’acquistò.”
I nostri pensieri e le parole che li formano costruiscono la nostra identità. Trascriverli e conservarli può aiutarci a non perderci del tutto. Quinn acquista un taccuino rosso e inizia a registrare tutti i dettagli che riguardano il caso che gli è stato affidato, tutti i percorsi, suoi e della persona che sta seguendo per le strade di New York. Alla fine lui si perderà ma di lui rimarrà il taccuino rosso.
“Ci inoltrammo cautamente all’interno e scoprimmo una serie di stanze vuote e spoglie. Sul pavimento di una stanzetta sul retro, linda e asettica come tutte le altre, c’era il taccuino rosso.”
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